La deontologia forense si estende alla mediazione: il nuovo Codice degli avvocati tutela l’indipendenza e la correttezza professionale

ROMA – Il Consiglio Nazionale Forense ha aggiornato il Codice deontologico degli avvocati, estendendo le norme di comportamento professionale anche a tutti i procedimenti alternativi al processo. Le modifiche, approvate il 21 marzo 2024 e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 1° settembre, rappresentano un passo importante per adeguare la professione forense ai nuovi strumenti di risoluzione delle controversie.

Doveri professionali oltre l’aula di tribunale

Il principale cambiamento riguarda il Titolo IV del Codice, che da “Doveri dell’avvocato nel processo” diventa “Doveri dell’avvocato nel processo e nei procedimenti di risoluzione alternativa e complementare delle controversie”. Questa riformulazione sottolinea l’importanza della correttezza professionale anche in ambiti come la mediazione e l’arbitrato.

Le modifiche toccano sette articoli (48, 50, 51, 56, 61, 62, 62-bis), introducendo regole più severe e precise per garantire l’indipendenza e la lealtà degli avvocati in ogni fase del loro operato.

Le novità nel dettaglio: minore, arbitrato e negoziazione

Una delle novità più significative riguarda l’articolo 56, relativo all’ascolto del minore. La norma aggiornata stabilisce che l’ascolto è possibile solo se l’avvocato è stato nominato curatore speciale del minore, garantendo così una maggiore tutela e una figura di riferimento specifica.

Importanti modifiche sono state apportate anche all’articolo 61, che disciplina l’arbitrato. Il divieto di accettare la nomina ad arbitro in presenza di un conflitto di interessi, già previsto per i professionisti soci o associati, viene ora esteso a tutti i colleghi con cui si collabora in maniera non occasionale. Questa estensione, che include anche i rapporti professionali con le parti in causa, ha lo scopo di prevenire potenziali conflitti di interesse e di rafforzare l’imparzialità degli arbitri. A ciò si aggiunge l’obbligo per l’avvocato, in veste di arbitro, di rendere “con chiarezza e lealtà le dichiarazioni” previste dal Codice di procedura civile.

Infine, il nuovo articolo 62-bis estende specifici obblighi deontologici anche alla negoziazione assistita, ribadendo l’importanza dei doveri di lealtà e riservatezza.


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Giustizia, Pnrr e corsa contro il tempo: 500 giudici da remoto per smaltire l’arretrato civile

ROMA – La giustizia si prepara a una vera e propria rivoluzione “virtuale” per onorare gli impegni presi con l’Unione Europea nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) ha approvato una serie di delibere che segnano l’avvio di un’operazione complessa e ambiziosa: l’assegnazione di 500 magistrati “da remoto” per smaltire l’arretrato civile e ridurre la durata dei processi, con una scadenza fissata al 30 giugno 2026.

Le due velocità della giustizia 

La fotografia scattata dal CSM, come emerge dall’ordine del giorno del Plenum, rivela un Paese profondamente diviso. L’analisi mostra che le aree più critiche, le cosiddette “zone rosse”, si concentrano quasi esclusivamente nel Sud e nelle Isole. Tra i tribunali di primo grado, ben 38 sedi sono in piena emergenza, rappresentando il 50% in più rispetto a quelli che hanno già raggiunto o si avvicinano agli obiettivi. La situazione è particolarmente allarmante a Cagliari, Campobasso, Catanzaro, Firenze, Palermo, Potenza, Reggio Calabria e Taranto, che avranno la massima priorità nelle assegnazioni.

Al contrario, alcune corti d’Appello come Ancona, Bari, Genova, L’Aquila e Venezia hanno già superato i target, riducendo l’arretrato del 60% rispetto al periodo 2018-2022 e la durata dei processi del 40% rispetto al 2019. Anche le corti di Trieste, Milano e Trento mostrano performance virtuose, mantenendo il cosiddetto Disposition Time (la durata media di un processo) al di sotto di un anno.

Una chiamata alle armi per 500 toghe

Il piano del CSM si basa su un principio di volontariato e flessibilità. L’interpello si rivolge all’intera magistratura ordinaria, chiedendo ai giudici di rendersi disponibili per la gestione da remoto di un minimo di 50 fascicoli pro capite. Si stima che l’operazione possa portare allo smaltimento di 25mila fascicoli in meno di 300 giorni.

La sfida è notevole, soprattutto considerando che la platea dei potenziali candidati è di circa 2.609 magistrati, il che significa che circa un giudice su cinque dovrebbe farsi carico di un carico di lavoro aggiuntivo proveniente da altri distretti. La richiesta è estesa anche ai magistrati con incarichi direttivi, semi-direttivi o a quelli che operano nel settore penale, purché abbiano un’esperienza pregressa nel civile.

L’interpello si aprirà il 4 settembre e si chiuderà l’8 settembre, con l’applicazione effettiva che durerà fino alla scadenza del Pnrr, il 30 giugno 2026. La distribuzione delle toghe “virtuali” sarà guidata dai dati sulle necessità più urgenti: Napoli ne riceverà 67, Venezia 66 e Bologna 24, a riprova di come le assegnazioni siano mirate a compensare le carenze maggiori.


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Condomini, telecamere abusive nel mirino: l’amministratore ha l’obbligo di intervenire

ROMA – Un tema che genera da sempre tensioni nei condomini trova finalmente una risposta chiara da parte della giurisprudenza e dell’Autorità Garante della Privacy. L’installazione di telecamere di videosorveglianza senza l’approvazione assembleare non è solo un abuso, ma un illecito con pesanti conseguenze legali. E la responsabilità di intervenire ricade in maniera diretta sull’amministratore, che non può più limitarsi a prendere le distanze dal problema.

Le regole chiare della videosorveglianza condominiale

La legge non lascia spazio a interpretazioni: l’articolo 1122-ter del Codice civile stabilisce che l’installazione di un impianto di videosorveglianza su parti comuni di un edificio richiede una delibera assembleare approvata con la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio. Qualsiasi impianto installato unilateralmente da un singolo condomino, quindi, è automaticamente fuori legge.

Dal punto di vista della privacy, le implicazioni sono ancora più serie. Le immagini riprese da un sistema non autorizzato rappresentano un trattamento illecito di dati personali. Mancano tutti i requisiti fondamentali: l’individuazione di un titolare del trattamento, un’informativa chiara, una valutazione d’impatto e una valida base giuridica per la raccolta delle immagini.

I doveri dell’amministratore e le conseguenze della negligenza

Fino a poco tempo fa, molti amministratori tendevano a disinteressarsi del problema, dichiarandosi estranei agli impianti abusivi. Ora, il Garante della Privacy e la giurisprudenza, come nel caso della recente sentenza 3445/2025 del Tribunale di Milano, hanno messo un punto fermo: l’amministratore ha il preciso dovere di agire tempestivamente per tutelare la riservatezza e i diritti dei condomini.

La mancata azione non solo lo espone a pesanti sanzioni pecuniarie da parte del Garante, ma può anche comportare una responsabilità personale diretta per eventuali danni causati. Inoltre, un comportamento passivo può essere considerato una “grave negligenza”, un motivo sufficiente per la revoca dall’incarico.

A riprova di questa linea dura, si ricorda un provvedimento del Garante risalente al dicembre 2022, in cui un condominio è stato sanzionato proprio per non aver regolarizzato un impianto installato abusivamente da alcuni residenti.


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Protesta eclatante davanti al Tribunale: il gesto che racconta la crisi della giustizia

ANCONA – Un atto di protesta tanto inusuale quanto eclatante scuote il Tribunale di Ancona. Ieri mattina, in Corso Mazzini, è apparso un cumulo di sterco, accompagnato da volantini anonimi con accuse scritte a mano. “Giudici mafiosi, infami, Repubblica delle banane” si leggeva sulle carte, un gesto che, al di là dell’aspetto goliardico, solleva interrogativi profondi sullo stato della giustizia.

Le ragioni di una protesta estrema

L’atto di protesta è con ogni probabilità legato a un’archiviazione mal digerita. Sebbene i dettagli della vicenda giudiziaria rimangano sconosciuti, le accuse sui volantini menzionano una presunta “falsificazione del verbale d’udienza” e il “trafugamento” di una memoria difensiva. Un racconto di presunta “malagiustizia” che ha spinto un cittadino a manifestare la propria rabbia in un modo così plateale.

Le autorità hanno reagito con rapidità: la presidente del Tribunale, Edi Ragaglia, ha immediatamente chiamato la polizia scientifica per i rilievi. L’identificazione dei responsabili, grazie alle telecamere di sorveglianza, non dovrebbe essere complessa.

Quando un gesto racconta la crisi di un Paese

L’indignazione di politici e magistrati è stata immediata, ma l’episodio di Ancona va oltre la singola protesta. Esso riflette un malessere più ampio e una crescente sfiducia popolare verso il sistema giudiziario. Mentre in Parlamento si discute di riforme e della separazione delle carriere, il “Paese reale” sembra faticare a credere nella sua efficacia.

Le statistiche in materia sono impietose e offrono un contesto che, se non giustifica, almeno spiega questo gesto estremo. L’Italia rimane fanalino di coda in Occidente con oltre 2.150 ricorsi pendenti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, un dato che ci pone dietro solo a Turchia, Russia, Ucraina, Romania e Grecia. A ciò si aggiungono gli oltre 30.000 errori giudiziari certificati dal 1992 a oggi.


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L’asse Mosca-Pechino si consolida: gas, terre rare e tecnologia gli assi della sfida all’Occidente

MOSCA – Il “partenariato strategico” tra Russia e Cina, da tempo al centro dell’attenzione internazionale, si è formalizzato in una serie di accordi concreti e di vasta portata. L’incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping ha sancito un’alleanza che non è più episodica, ma strutturale e che punta a diversificare le rotte commerciali e a rafforzare la cooperazione in settori chiave, lanciando una chiara sfida all’Occidente.

L’energia come pilastro della nuova alleanza

Il cuore pulsante di questa intesa è il settore energetico. L’accordo principale riguarda la costruzione del gasdotto Power of Siberia 2, un’opera che, una volta completata, permetterà alla Russia di raddoppiare le forniture di gas verso la Cina. Attualmente, il gasdotto Power of Siberia ha una capacità di 38 miliardi di metri cubi all’anno, un volume destinato a salire ulteriormente. Il nuovo progetto, che prevede il passaggio anche in Mongolia, avrà una capacità di 50 miliardi di metri cubi l’anno per i prossimi 30 anni, consolidando la Cina come principale acquirente delle risorse energetiche russe.

Questa strategia di diversificazione è stata cruciale per Mosca, che, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e le sanzioni europee, ha reindirizzato le sue esportazioni di gas e petrolio verso i paesi asiatici. Basti pensare che i volumi di gas venduti oggi alla Cina rappresentano circa la metà di ciò che la Russia inviava all’Europa prima del 2022.

Dalle terre rare alla cooperazione militare

L’alleanza tra le due superpotenze va ben oltre il gas. I due leader hanno siglato più di venti accordi che spaziano dall’intelligenza artificiale all’aerospazio, dalla medicina all’agricoltura. Tra gli ambiti più strategici spicca quello delle terre rare, minerali cruciali per l’industria tecnologica, di cui sia Russia che Cina detengono ingenti giacimenti.

Un altro elemento che preoccupa l’Occidente è il rafforzamento della cooperazione in ambito militare. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), nata come alleanza per la sicurezza, vede oggi i suoi membri (tra cui Russia e Cina) aumentare notevolmente le spese militari. Questo crescente coordinamento tra le forze armate di Mosca e Pechino fa presagire una possibile evoluzione di questa nuova alleanza.

Come sottolineato da Xi Jinping, l’obiettivo è aumentare la connettività nel triangolo Cina-Russia-Mongolia, incrementando gli scambi commerciali e la cooperazione in tutti i settori, dalla scienza alla cultura, e investendo in nuove infrastrutture che facilitino il commercio.


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Il paradosso del lavoro: l’Italia cerca laureati ma mancano quelli giusti

ROMA – È un paradosso tutto italiano, quello che emerge da un recente rapporto di Unioncamere e Ministero del Lavoro: le aziende cercano milioni di nuovi dipendenti nei prossimi anni e si apprestano ad accogliere tra i 250 e i 270 mila laureati l’anno, eppure il divario tra domanda e offerta resta enorme. Il problema non è la mancanza di posti, ma la mancata corrispondenza tra le competenze richieste e quelle offerte.

Il divario tra le aule universitarie e le fabbriche

La ricerca delle imprese è orientata, con sempre maggiore urgenza, verso i laureati in discipline scientifico-tecnologiche. Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, le cosiddette materie Stem, sono la chiave d’ingresso per il mondo del lavoro. Un settore che, secondo le stime, rischia di avere un deficit annuale che varia tra i 9 e i 18 mila laureati.

Allo stesso tempo, si continuano a formare migliaia di giovani in discipline che, per quanto nobili, non hanno le stesse prospettive occupazionali. Il dibattito è aperto da tempo: è inutile, si legge tra le righe del rapporto, formare “eserciti di laureati in scienze politiche, scienze sociali o scienze motorie” se l’industria ha bisogno di ingegneri e programmatori.

Non si tratta di sminuire l’importanza di questi percorsi di studio, ma di prendere atto che il mercato ha esigenze specifiche che vanno ascoltate. L’obiettivo non è spegnere i sogni degli studenti, ma aiutarli a fare scelte più consapevoli, che tengano conto non solo delle proprie passioni, ma anche delle reali opportunità professionali.

Dall’influencer al calciatore: sognare va bene, ma serve un piano B

Il problema si estende anche a settori come quello del giornalismo o delle nuove figure professionali come gli influencer. In molti sognano di fare carriera seguendo le proprie passioni, ma il mercato del lavoro, in questi ambiti, non ha spazio per “legioni di cronisti” o “eserciti di influencer”. Il successo è appannaggio di pochi, e anche questi pochi devono poi sottostare alle ferree leggi della visibilità e della reputazione.

 


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Cyber-attacchi, l’Italia in stato di allerta: in un anno i tentativi di hackeraggio sono quasi raddoppiati

ROMA – L’incidente che ha messo fuori uso il GPS dell’aereo della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha riacceso i riflettori sulla crescente minaccia dei cyber-attacchi. Sebbene non ci siano prove che l’evento sia stato un attacco mirato, le autorità italiane hanno avviato una verifica immediata, i cui risultati confermano un quadro preoccupante: nei primi sei mesi dell’anno, l’Italia ha visto un’escalation di attacchi informatici contro ministeri, sistemi sanitari e altre infrastrutture critiche. L’incremento è del 98% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con oltre 18.000 tentativi di intrusione.

I numeri di un’offensiva digitale

L’analisi dei dati rivela la gravità della situazione. In sei mesi, si sono registrati 346 attacchi rilevanti, con un focus particolare sugli attacchi DDoS (Distributed Denial of Service), che mirano a rendere temporaneamente non disponibili i servizi online. Questi ultimi sono aumentati del 77%, passando da 336 a 598. A giugno, il fenomeno ha toccato un picco preoccupante: in soli 13 giorni, sono stati sferrati 275 attacchi contro 124 obiettivi diversi, tutti rivendicati da gruppi hacker legati al Cremlino.

L’attività ostile non si è limitata a questo. Si sono contati anche:

  • 35.369 episodi di phishing, volti a rubare dati personali e sensibili.
  • 7.427 malware neutralizzati, tra cui pericolosi ransomware che tengono in ostaggio i dati aziendali o personali.

Anche il sito del Ministero della Difesa è finito nel mirino. Tra luglio e agosto, un tentativo di intrusione ha bloccato il sistema per oltre sei ore. Sebbene sia stato ufficialmente attribuito a “manutenzione”, le fonti interne confermano che si è trattato di un attacco bloccato in tempo.

Il ruolo dei gruppi hacker e la “guerra ibrida”

La matrice di molti di questi attacchi, in particolare quelli DDoS, è stata ricondotta a gruppi criminali filorussi. Tra i più attivi, il collettivo NoName 057, che ha rivendicato attacchi contro obiettivi ucraini, statunitensi ed europei, in quella che viene definita “guerra ibrida”, un mix di strategie belliche convenzionali e non convenzionali, dove i cyber-attacchi giocano un ruolo cruciale. Le rivendicazioni di questi gruppi spesso avvengono su piattaforme come Telegram, e la polizia postale italiana ha già emesso cinque mandati di arresto contro presunti membri russi di queste organizzazioni.

Nonostante l’intelligence non confermi che l’interferenza al GPS del volo di von der Leyen sia un’azione mirata, l’attenzione rimane altissima. Le “azioni” ostili su ampie aree geografiche sono una costante, e il rischio di un innalzamento del livello di minaccia è considerato più che concreto.


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Il caso e la posizione della Cassazione

La vicenda giudiziaria ha avuto inizio con il ricorso di un lavoratore che, dopo anni di servizio nel turno di notte, con la relativa maggiorazione in busta paga, era stato spostato unilateralmente al turno diurno, subendo una significativa perdita economica. La Corte d’Appello aveva negato il risarcimento per la perdita della maggiorazione, sostenendo che si trattasse di un “compenso accessorio” non risarcibile, in quanto l’azienda aveva il diritto di modificare i turni di lavoro.

La Cassazione, con l’ordinanza 22636/2025, ha respinto questa impostazione. I giudici hanno chiarito che, sebbene il datore di lavoro possa avere la facoltà di riorganizzare i turni, questa non può legittimare un demansionamento che comporti un “danno patrimoniale” per il lavoratore. Il punto cruciale, secondo la Suprema Corte, non è la natura dell’indennità, ma il fatto che la perdita economica sia una conseguenza diretta e oggettiva di un atto illecito del datore di lavoro.


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Zangrillo annuncia la riforma degli stipendi per i dirigenti PA e mette nel mirino le pagelle dei magistrati

ROMA – La “rivoluzione del merito”, promessa da Giorgia Meloni fin dall’inizio del suo mandato, sta per entrare nel vivo. A confermarlo è il Ministro per la Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo, che annuncia l’imminente approvazione di un decreto per la riforma degli stipendi dei dirigenti statali e, in un futuro prossimo, una revisione del sistema di valutazione anche per la magistratura.

Nuovi stipendi per i manager della PA

La riforma del sistema retributivo per i dirigenti pubblici è diventata un’esigenza dopo che la Corte Costituzionale ha bocciato il precedente tetto di 240mila euro. Ora, il governo si prepara a fissare un nuovo massimale, che potrebbe arrivare fino a 360mila euro, prendendo come riferimento lo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione.

Tuttavia, Zangrillo chiarisce che non si tratterà di un “libera tutti”: i nuovi tetti non saranno uguali per tutti i manager, ma verranno graduati in base alla complessità e alla responsabilità degli incarichi. “Non è possibile che un dirigente di secondo livello abbia la stessa retribuzione di un dirigente di primo livello che ha un ruolo più complesso e corre rischi più alti”, spiega il Ministro. Questo nuovo sistema, basato su “scaglioni”, mira a rendere il percorso di carriera più incentivante, replicando i modelli del settore privato.

Il provvedimento, atteso tra la metà di settembre e ottobre, si affianca al “Ddl Merito”, già in discussione in Parlamento, che introduce un nuovo sistema di valutazione della performance dei dipendenti pubblici, legando il risultato agli obiettivi raggiunti.

La sfida sulla valutazione delle toghe

Ma la questione del merito, secondo Zangrillo, non si ferma alla Pubblica Amministrazione. Il Ministro ha apertamente sollevato la necessità di una riforma per la magistratura, un tema che è già sul tavolo del Guardasigilli Carlo Nordio. “Le pagelle dei giudici sono tutte ‘eccellenti’, serve una riforma del merito”, ha dichiarato Zangrillo, facendo eco a una critica di lunga data del centrodestra.

L’obiettivo è intervenire sul sistema di valutazione, oggi regolato dalla legge Cartabia, che non sempre, a detta del governo, riesce a distinguere l’operato dei singoli magistrati, portando a promozioni quasi automatiche anche in casi di negligenza o incompetenza. Sebbene la questione sia delicatissima, con la magistratura associata pronta a fare le barricate, l’esecutivo non esclude di rimettere mano a questa materia nei prossimi mesi.

L’intento è lo stesso che guida la riforma per i dipendenti pubblici: premiare l’efficienza e la professionalità e mettere fine a una cultura del “tutti promossi”, che, come ha ironicamente notato Zangrillo, non rispecchia la realtà percepita dai cittadini.


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Le minacce dal Nord-Est

La tensione si concentra in particolare sui porti. Collettivi antagonisti del Nord-Est, tra cui il centro sociale “Pedro” (storicamente legato alla figura di Luca Casarini) e il sindacato Adl Cobas, hanno lanciato un chiaro avvertimento: se le navi dirette a Gaza dovessero essere fermate, loro “si mobiliteranno per bloccare il porto di Venezia”.

Questa “azione diretta” si inserisce in un clima di crescente ostilità. I movimenti, reduci da manifestazioni come quella al Lido di Venezia, che definiscono “una straordinaria dimostrazione di forza collettiva” contro lo “Stato genocida di Israele”, sono pronti ad alzare il tiro. La parola d’ordine è la “disobbedienza”.

Mobilitazione a 360 gradi

La protesta non si limita ai porti. La propaganda pro-Palestina si sta diffondendo anche nelle università e nelle scuole. Per la giornata di domani, il collettivo giovanile “Cambiare Rotta” ha lanciato un appello alla mobilitazione generale di studenti e professori a sostegno della Flottiglia. A Roma, sono già stati annunciati blitz e sit-in nei rettorati degli atenei di Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza, oltre che all’Ufficio scolastico regionale. L’obiettivo, ancora una volta, è lo stesso: “se non fermano il genocidio, fermeremo il Paese”.

Le voci della protesta trovano risonanza anche in ambienti accademici. L’attivismo a favore della causa palestinese vede tra le sue fila figure di spicco come il rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Tomaso Montanari, che non esita a definire il conflitto “un genocidio made in Italy”.


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